Benefi-scienza la nuova scienza del marketing ?

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Benefi-scienza la nuova scienza del marketing ?

Una nuova scienza per il business della beneficenza

Non è mio volere intervenire su quanto è accaduto tra una nota #influencer di #Milano, (sembra che si chiami così) e una nota azienda produttrice di dolci.

Su quanto accaduto sono state scritte ampie pagine e sinceramene non voglio aggiungermi ad un elenco poco utile dei pro o dei contro gli attori in questione, sinceramente non mi mi interessa.

Ho colto con piacere il contenuto di un post interessante, (-< clicca per leggerlo), scritto da Carlo Occhinegro.

Perché non è una cattiva idea comunicare la beneficenza per un’azienda?

Carlo che è un professionista del settore della comunicazione ampiamente qualificato, ha espresso nel suo post un’interessante valutazione sul fatto che alla fine fare beneficenza sia cosa sempre premiante per ottenere un rafforzamento del proprio brand o meglio ancora della sua reputazione.

Su questo sicuramente Carlo mi trova parzialmente in accordo, mi sono permesso di dare un mio contributo al suo post con questo mio commento che vuole aprire ad altre linee di pensiero.

Un concetto così importante e strategico del marketing, merita un #pulse dedicato.

Tutto è iniziato quando “fare beneficenza” si è trasformato in un business redditizio da abbinare ad un prodotto. Penso che la necessità da parte di un’azienda di rendere pubblico il proprio impegno etico sociale legato ad un rapporto di vendita derivi da una carenza di “personalità” del brand, da non escludere anche ad un problema di qualità dei prodotti che si desidera far conoscere. La domanda dovrebbe essere: “è etico far conoscere ciò che si dona per vendere di più?”.Sono convinto che ci sarebbero stati altri modi per impostare una bella campagna di comunicazione sul fare beneficenza senza scopi di lucro, legando il tutto ad un senso etico di fare marketing che sono sicuro alla lunga paga molto di più in termini di fidelizzazione e ringraziamento da parte del consumatore. Abbinare la vendita di un prodotto ad un’opera di beneficenza è secondo me un errore di comunicazione. Fare beneficenza per poi portare il consumatore ad acquistare per gratitudine i prodotti legati al brand non lo è. Certo che bisogna comunicare bene e a volte anche le aziende dovrebbero imparare a dire “no questo non lo faccio non è etico”. Non esiste solo il business della vendita, esisterà sempre di più un business del far stare bene la coscienza

Desidero quindi riprendere alcuni punti per illustrare al meglio un mio pensiero, (o visione) su questo argomento.

Parto da una serie di spunti che penso possano aiutare a pensare.

  • Fare beneficenza per business non significa fare del mecenatismo.

Su questo punto siamo certi, essere un mecenate significa cosa diversa (Tendenza a favorire le arti e le lettere, accordando munifica protezione a chi le coltiva <cit>). In verità la definizione è prima di ogni riferimento alla scienza e di tutto quello che può portare benessere nella vita sociale di una comunità ma questo è un altro discorso di cui bisognerà informare la #treccani.

 

  1. Quindi la beneficienza fatta per vendere non si occupa di “fare del bene” ma ha come primo obiettivo quello di vendere più prodotti per migliorare il proprio reddito d’impresa. Il fatto che poi ci sia anche un coinvolgimento etico sociale con qualche aiuto pro bono a qualche “attore” è da considerarsi di fatto un gettone di presenza da pagare nell’azione di vendita. Il “cachet” sono due quindi e non uno.
  2. style=”font-family: var(–list–font-family); font-size: var(–global–font-size-base);”>A questo punto mi chiedo quali siano e se ci siano, i parametri di misurazione entro i quali si possa considerare valida un’azione di beneficenza eticamente sostenibile. Per fare un esempio: Pago un testimonial 1.000.000 di euro, (cifra casuale senza alcun riferimento a fatti e persone) e su questo valore decido di donare una percentuale in beneficenza sfruttandone completamente i diritti d’immagine e di diffusione per avere un ritorno in pubblicità che vada ad incrementare le vendite del mio prodotto. Ipotizziamo una percentuale del 3,5%, il 5%, il 10% oppure anche solo 1 euro dato in beneficenza. Aiutatemi a capire il valore di questi parametri perché diversamente dovremmo parlare di un’attività di CO-MARKETING DELLA SOFFERENZA a senso unico a favore dell’azienda.
  3. Se non esiste una scala equilibrata mi sembra di capire allora che ci troviamo di fronte ad un qualcosa di estremamente soggettivo che qualche manager “divino” decide di imporre o impostare su una base di obiettivo di vendita pura. Questa azione però non può passare come beneficenza bensì è una risposta ad una richiesta di carità che in molti casi risulta essere sempre molto esigua e poco significante, (“faccio la carità” – la logica del piattino).
Quindi è ?

E qui Carlo non mi trova in accordo.

Per il mio parere non lo è affatto per nessuno, o meglio non nei modi che siamo abituati a vedere.

Dobbiamo sempre ricordarci che abbiamo un consumatore a cui non piace essere fregato o meglio non piace sapere di essere fregato (cosa assai bene diversa).

Un consumatore che spesso desidera non avere problemi con la propria coscienza e quindi è disposto a comprare qualcosa il cui prezzo è sproporzionato a patto che una parte di quel prezzo vada a finire in beneficenza. Quindi una percentuale ben definita (vedi il punto sopra) e non certo un gesto di carità.

Ora la domanda è la seguente: Cosa può accadere se il consumatore scopre di essere stato fregato e quindi la sua bella coscienza non riceve il giusto appagamento per il dono che lui stesso pensa di aver fatto?

La risposta la conosciamo tutti perché a nessuno piace essere preso in giro. Quindi dove sta l’utile per una azienda aver fatto questa pseudo beneficenza?

I danni d’immagine sono enormi e possono anche essere distruttivi sotto certi aspetti.

Vero anche che il consumatore soffre di due elementi che possono ripulire il tutto e aiutare chi commette il fatto.

 

  1. Memoria corta e poi alla fine il consumatore cerca di vedere sempre il proprio interesse dimenticandosi della sua intenzione.
  2. I consumatori cambiano nel tempo e non sono sempre gli stessi. Magari fra 10 anni ci saranno nuovi consumatori “vergini” nella loro speranza di fare del bene (nuovi allocchi da utilizzare).

 

Quindi un’azienda se sbaglia un approccio del “marketing della carità” alla fine sa bene che affronterà solo un periodo breve entro il quale dovrà ripulirsi limitando al minimo i danni. Su questa credenza molti uomini del marketing “corporate” di molte aziende italiane basano le loro decisioni in termini di campagna a favore del fatturato.

Un marketing della beneficenza è possibile e potrebbe essere redditizio ?

Per dare una risposta a questa domanda penso che dormiamo rispondere prima ad un’altra domanda:

è etico far conoscere ciò che si dona per vendere di più?

Sono convinto che fare beneficenza possa essere redditizio ed etico ma rispettando alcune preziose regole.

 

  • 1^ regola:Donare senza legarsi per forza alla vendita di un prodotto è possibile anche se ci vuole coraggio.
  • 2^ regola: Proporre una campagna emozionale che vede l’azienda impegnata a migliorare la società in cui opera, con interventi benefici e adeguatamente distribuiti su vari enti bisognosi. Obiettivo è il rafforzamento del proprio Brand in termini di reputazione sociale. Magari in abbinamento alle persone che fanno l’azienda stessa.
  • 3^ regola: lasciare ai beneficiari il compito di parlare di ciò che è stato fatto, loro devono diventare i veri testimonial perchè solo loro sono credibili e non pseudo #influencer da macchina da soldi.

IPOTETICAMENTE

CI HANNO CHIESTO 1.000.000 DI EURO PER VENDERE I NOSTRI PANETTONI MA ABBIAMO RINUNCIATO E ABBIAMO DECISO DI DONARE 1.000.000  EURO PER RENDERE MIGLIORE L’ESISTENZA DI CHI STA SOFFRENDO.
ALLA FINE IL NOSTRO PANETTONE AVRA’ ANCORA PIU’ GUSTO

CONCLUSIONE D'APPROFONDIMENTO:

Anche in questo caso vediamo come la totale assenza di regole precise possa innescare una modalità di gestione del “fare beneficenza” che spesso non corrisponde ad una vera e concreta realtà d’intenti etico sociali.

 

Fare beneficenza significa avere dei progetti alla lunga, impegni importanti con affiancamenti di crescita verso che ha bisogno.

 

Le aziende che hanno intenzione di fare questo lo fanno seriamente con chiarezza senza legare le loro attività alla singola vendita di un prodotto, (magari in periodo natalizio).
Queste aziende lungimiranti con i loro leader si rifanno anche allo spirito del vero mecenate che dovrebbe essere sempre tenuto presente in una logica di business.


In questo caso c’è un esempio che vorrei citare che è quello di #Armani anche se in Italia ne esistono altri significativi degni di essere conosciuti che spesso non lo sono affatto.

Qui trovate (-< leggi), un concetto di beneficenza che mi piace e che vorrei che fosse preso da esempio da quei manager poco illuminati che ad oggi si sono fatti prendere da logiche di mercato effimere “influenzate” da personaggi che alla lunga possono solo creare un problema al proprio brand, indebolendolo alla prima crisi o errore di comunicazione.

 

Qui mi fermo anche se su questo argomento ci sono anche altri risvolti interessanti a livello di “Marketing Emozionale” che potrebbero essere affrontati che alla fine interessano anche logiche di neuromarketing.

 

Spero con questo mio contributo di donarvi qualche spunto in più di riflessione.
Magari in accordo o in disaccordo questo non importa, basta che alla fine possiate fermare un attimo il business d’impresa e pensare a come fare beneficenza.

 

Un saluto e buon lavoro a tutti.

Giovanni Corbetta

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